Un film francese,
inserito nella programmazione ACID (Association du Cinema Independant pour sa
Diffusion), con un titolo in italiano, Isola. La mente corre subito alla nostra
isola che tutto il mondo ha imparato a conoscere, e non per le sue bellezze naturali.
Ovviamente Lampedusa. E
Pomme-Hurlante-Films-Isola-Fabianny-Deschamps-Acid-Cannes-2016invece ci
troviamo su un’isola che è sì della provincia di Trapani, come indicano le
targhe automobilistiche, ma che in realtà è al tempo stesso una delle tante isole
del nostro Mar Mediterraneo, dalle alte bianche scogliere, immerse nella luce
abbacinante. È qui che vive Dai, una giovane Cinese, arrivata sull’isola da
pochi mesi, quanti sono serviti a far crescere quel bimbo, concepito altrove,
che porta ancora nel suo pancione. In attesa che il mare le porti presto l’uomo
che ama, vive, lei che ha perso tutto in un terremoto, nella grotta di una
cava, in un ‘appartamento’ composta da cameretta, in cui le bambole raccolte
nella spazzatura sono in attesa del nascituro, salotto, lavanderia e camera da
letto, una gabbia per cani, forse regalo del giovane che lavora al canile, uno
di quegli Italiani a cui Dai vende il suo corpo per 20 euro. «Per bebé e per
mia casa» dice in un italiano che contempla la conoscenza di altre pochissime
parole, come quel «Pagare» urlato al cliente che l’abbandona in lacrime e senza
soldi, dopo aver consumato sesso. Dal suo antro Dai fuoriesce per recarsi
nell’altra isola. Il centro in cui sono raccolti i naufraghi che quasi ogni
giorno il mare porta a riva; il molo dove le forze dell’ordine italiane fanno
sbarcare uomini abbandonati su barconi alla deriva e procedono alle prima
identificazione. Ognuno di noi in sala si fa fotografo e scatta la foto
segnaletica di uomini, donne, vecchi, bambini, dai colori e dai lineamenti del
volto diversi, senza nome, con il solo numero sul braccialetto al polso a dare
loro un’identità. Donne e uomini con una storia alle spalle che continua a
vivere solo in loro, perché troppo spesso mancano orecchi disposti ad ascoltare
le storie degli uomini, le loro vite. Come la storia della vita di Dai prima
del suo sbarco sull’isola. Dove viveva? Chi erano i suoi familiari, i suoi
amici? E il padre del bimbo che porta in grembo? E da cosa è fuggita?
La regista, Fabianny Deschamps,
non ci informa. Non è necessario. Dai ha imparato a vivere ovunque e vive più
vite contemporaneamente. Nel lucore dell’alba esce dal ventre della terra e la
seguiamo mentre, dandoci le spalle, affronta le abbaglianti scogliere, avvolta
in una lunga veste bianca, capelli neri sciolti al vento. Giunta sull’altra
spiaggia dell’isola, la sua spiaggia, accompagnata dai suoni della natura, come
una dea officia il suo rito, invocando il dio mare, perché le doni il suo
marinaio, il suo amore. È una delle scene più emozionati dell’intero film, un
momento sacro di unione tra lo spirito di Dai e l’anima del mare: la giovane
donna flette il busto sino a sfiorare con le labbra la sabbia, intanto che le
acque del mare arrivano a lei, per congiungersi in un immaginario bacio. Ed un
giorno il mare esaudisce la preghiera e le dona non il suo uomo, ma un Berbero,
Hichem. Per Dai è lui il padre del figlio che nascerà e insieme un giorno
vivranno in una bellissima casa, grazie ai soldi che lei si sta procurando. Nel
frattempo, perché non scappi anche il nuovo sposo, Dai rinchiude Hichem, come
se fosse il suo cane, nella gabbia e lo assiste e lo cura amorevolmente. Purché
sia colmato il suo vuoto affettivo, non importa se suo marito non capisca nulla
di ciò che gli dice (l’uomo traduce Zhen, il nome dell’uomo che non è mai
arrivato, in un suono, Djinn, che nella sua lingua significa “spirito
maligno”), né le importa di comprendere ciò che lui invano, tra terrore e
disperazione, cerca di dirle. Non le serve sapere chi Hichem sia, da dove
venga, chi abbia lasciato quell’uomo che ora è il suo uomo, nella sua casa,
sulla sua isola. Del resto, sull’isola, nel resto del mondo non c’è nessuno a
cui importa di Dai, di Hichem e di quel bimbo, che forse non nascerà mai, se la
terra tornerà ancora una volta a tremare sotto i suoi piedi.
Cinque cortometraggi per
chiudere
L’ultimo spettacolo a cui
abbiamo avuto l’onore di assistere è un programma di cinque cortometraggi che
vediamo prima di partire nella Sala Buñuel, in cima al Palais. Questi brevi
frammenti, provenienti da tre continenti, rappresentano uno stacco rispetto
alla routine cinematografica dei giorni scorsi; a presentarli ci sono tutti e
cinque i registi.
Alexandru BadeaSi
succedono davanti ai nostri a occhi cinque brevi storie di tematica e
ambientazione molto diverse fra loro. Aram, dell’iraniana F. Parnian, racconta
dell’esperienza lavorativa di una giovane donna, licenziata dal suo capo forse
a causa di una loro relazione appena suggerita; In the hills, scritto anch’esso
da un regista iraniano, H. Ahmadi, si concentra sulla ricerca di intimità di un
uomo solo, Shahram, impegnato in incontri sessuali con giovani coppie per la
pura curiosità di penetrare per una notte nella loro vita privata; il terzo, A
nyalintàs nesze (The Noise of Licking) dell’ungherese N. Andrasev, è un cartone
animato al limite del surreale incentrato su due vicine di casa e sul gatto di
una di loro; il quarto, La culpa, probablememte(The Guilt, Probably) del
venezuelano M. Labarca, è ispirato ad alcuni momenti della vita del regista
stesso e ci fa assistere, nel buio di un black-out notturno, ad un dialogo tra
un uomo sposato (idealmente il padre del regista), la sua amante e la figlia di
lei. Dal sapore autobiografico, infine, anche l’ultimo corto, Toate fluviile
curg în mare (All Rivers Run to the Sea) del rumeno Alexandru Badea (vedi
immagine), che racconta la difficoltà di Radu ad accettare la morte di sua
madre.
Nel complesso, i cinque
cortometraggi non ci hanno soddisfatto appieno: le storie partono tutte da
spunti interessanti, ma appaiono prive di conclusione, come estrapolate da una
storia più ampia; ciò ne rende difficile l’interpretazione. Riconosciamo,
tuttavia, in particolare agli ultimi due corti una maggiore profondità
tematica, una capacità espressiva ed un impatto emotivo sullo spettatore che ci
hanno colpiti.
Garçons de Cannes II D ESABAC