samedi 21 mai 2016

Cannes : Un’Isola e cinque storie al Palais







Un film francese, inserito nella programmazione ACID (Association du Cinema Independant pour sa Diffusion), con un titolo in italiano, Isola. La mente corre subito alla nostra isola che tutto il mondo ha imparato a conoscere, e non per le sue bellezze naturali. Ovviamente Lampedusa. E Pomme-Hurlante-Films-Isola-Fabianny-Deschamps-Acid-Cannes-2016invece ci troviamo su un’isola che è sì della provincia di Trapani, come indicano le targhe automobilistiche, ma che in realtà è al tempo stesso una delle tante isole del nostro Mar Mediterraneo, dalle alte bianche scogliere, immerse nella luce abbacinante. È qui che vive Dai, una giovane Cinese, arrivata sull’isola da pochi mesi, quanti sono serviti a far crescere quel bimbo, concepito altrove, che porta ancora nel suo pancione. In attesa che il mare le porti presto l’uomo che ama, vive, lei che ha perso tutto in un terremoto, nella grotta di una cava, in un ‘appartamento’ composta da cameretta, in cui le bambole raccolte nella spazzatura sono in attesa del nascituro, salotto, lavanderia e camera da letto, una gabbia per cani, forse regalo del giovane che lavora al canile, uno di quegli Italiani a cui Dai vende il suo corpo per 20 euro. «Per bebé e per mia casa» dice in un italiano che contempla la conoscenza di altre pochissime parole, come quel «Pagare» urlato al cliente che l’abbandona in lacrime e senza soldi, dopo aver consumato sesso. Dal suo antro Dai fuoriesce per recarsi nell’altra isola. Il centro in cui sono raccolti i naufraghi che quasi ogni giorno il mare porta a riva; il molo dove le forze dell’ordine italiane fanno sbarcare uomini abbandonati su barconi alla deriva e procedono alle prima identificazione. Ognuno di noi in sala si fa fotografo e scatta la foto segnaletica di uomini, donne, vecchi, bambini, dai colori e dai lineamenti del volto diversi, senza nome, con il solo numero sul braccialetto al polso a dare loro un’identità. Donne e uomini con una storia alle spalle che continua a vivere solo in loro, perché troppo spesso mancano orecchi disposti ad ascoltare le storie degli uomini, le loro vite. Come la storia della vita di Dai prima del suo sbarco sull’isola. Dove viveva? Chi erano i suoi familiari, i suoi amici? E il padre del bimbo che porta in grembo? E da cosa è fuggita?
La regista, Fabianny Deschamps, non ci informa. Non è necessario. Dai ha imparato a vivere ovunque e vive più vite contemporaneamente. Nel lucore dell’alba esce dal ventre della terra e la seguiamo mentre, dandoci le spalle, affronta le abbaglianti scogliere, avvolta in una lunga veste bianca, capelli neri sciolti al vento. Giunta sull’altra spiaggia dell’isola, la sua spiaggia, accompagnata dai suoni della natura, come una dea officia il suo rito, invocando il dio mare, perché le doni il suo marinaio, il suo amore. È una delle scene più emozionati dell’intero film, un momento sacro di unione tra lo spirito di Dai e l’anima del mare: la giovane donna flette il busto sino a sfiorare con le labbra la sabbia, intanto che le acque del mare arrivano a lei, per congiungersi in un immaginario bacio. Ed un giorno il mare esaudisce la preghiera e le dona non il suo uomo, ma un Berbero, Hichem. Per Dai è lui il padre del figlio che nascerà e insieme un giorno vivranno in una bellissima casa, grazie ai soldi che lei si sta procurando. Nel frattempo, perché non scappi anche il nuovo sposo, Dai rinchiude Hichem, come se fosse il suo cane, nella gabbia e lo assiste e lo cura amorevolmente. Purché sia colmato il suo vuoto affettivo, non importa se suo marito non capisca nulla di ciò che gli dice (l’uomo traduce Zhen, il nome dell’uomo che non è mai arrivato, in un suono, Djinn, che nella sua lingua significa “spirito maligno”), né le importa di comprendere ciò che lui invano, tra terrore e disperazione, cerca di dirle. Non le serve sapere chi Hichem sia, da dove venga, chi abbia lasciato quell’uomo che ora è il suo uomo, nella sua casa, sulla sua isola. Del resto, sull’isola, nel resto del mondo non c’è nessuno a cui importa di Dai, di Hichem e di quel bimbo, che forse non nascerà mai, se la terra tornerà ancora una volta a tremare sotto i suoi piedi.

Cinque cortometraggi per chiudere
L’ultimo spettacolo a cui abbiamo avuto l’onore di assistere è un programma di cinque cortometraggi che vediamo prima di partire nella Sala Buñuel, in cima al Palais. Questi brevi frammenti, provenienti da tre continenti, rappresentano uno stacco rispetto alla routine cinematografica dei giorni scorsi; a presentarli ci sono tutti e cinque i registi.
Alexandru BadeaSi succedono davanti ai nostri a occhi cinque brevi storie di tematica e ambientazione molto diverse fra loro. Aram, dell’iraniana F. Parnian, racconta dell’esperienza lavorativa di una giovane donna, licenziata dal suo capo forse a causa di una loro relazione appena suggerita; In the hills, scritto anch’esso da un regista iraniano, H. Ahmadi, si concentra sulla ricerca di intimità di un uomo solo, Shahram, impegnato in incontri sessuali con giovani coppie per la pura curiosità di penetrare per una notte nella loro vita privata; il terzo, A nyalintàs nesze (The Noise of Licking) dell’ungherese N. Andrasev, è un cartone animato al limite del surreale incentrato su due vicine di casa e sul gatto di una di loro; il quarto, La culpa, probablememte(The Guilt, Probably) del venezuelano M. Labarca, è ispirato ad alcuni momenti della vita del regista stesso e ci fa assistere, nel buio di un black-out notturno, ad un dialogo tra un uomo sposato (idealmente il padre del regista), la sua amante e la figlia di lei. Dal sapore autobiografico, infine, anche l’ultimo corto, Toate fluviile curg în mare (All Rivers Run to the Sea) del rumeno Alexandru Badea (vedi immagine), che racconta la difficoltà di Radu ad accettare la morte di sua madre.
Nel complesso, i cinque cortometraggi non ci hanno soddisfatto appieno: le storie partono tutte da spunti interessanti, ma appaiono prive di conclusione, come estrapolate da una storia più ampia; ciò ne rende difficile l’interpretazione. Riconosciamo, tuttavia, in particolare agli ultimi due corti una maggiore profondità tematica, una capacità espressiva ed un impatto emotivo sullo spettatore che ci hanno colpiti.



Garçons de Cannes  II D ESABAC


Gabriele Franchi I D ESABAC : L'affiche du Festival de Cannes 2016 : Le mépris





Une Excellente présentation  de la dernière affiche de Cannes 

au bon souvenir de Jean-Luc Godard, de Michel Piccoli,

  de Brigitte Bardot et ... de  Malaparte et  de Capri




Visivamente elegante, come sempre, la locandina destinata a presentare in questo 2016 l’annuale rassegna della Croisette vuole, analogamente a quelle degli ultimi anni, celebrare un passato glorioso, gli anni d’oro delle rassegne cinematografiche. E lo fa scegliendo un fotogramma di Le Mépris, “Il disprezzo”, coproduzione italo-francese del 1963, sesto lungometraggio e tra i capolavori assoluti di Jean-Luc Godard, forse il più geniale, sicuramente il più imitato, tra i registi della Nouvelle Vague.  La marmorea scalinata è quella della villa di Curzio Malaparte a Capri, spazio quasi metafisico, bagnato dal sole e immerso nel blu del Mediterraneo. Nel Disprezzo la villa, che vediamo stagliarsi verso la linea dell’orizzonte, è il set scelto per girare un adattamento dell’Odissea. A dirigerlo, novello Omero, è Fritz Lang. Paul Javal, interpretato da Michel Piccoli, è invece lo sceneggiatore, che vediamo condividere la propria, difficile, vita matrimoniale con la moglie Camille, una Brigitte Bardot di abbacinante bellezza.
 Il rapporto amoroso è invariabilmente drammatico, minato da gelosie e risentimento, frammentato  dalle lacrime e dai sussurri: “je te méprise”, dice Camille dopo l’ennesimo litigio. Camille cederà alla fine alle lusinghe di un volgare produttore cinematografico americano, Prokosch. E il destino sarà tragico.
Dietro il lussureggiante technicolor e la perfetta composizione coloristica, dietro a piani sequenza e a dialoghi coltissimi, Godard intende mostrare il cortocircuito tra cinema e realtà . Ed è rilevante in tal senso l’utilizzo nel ruolo di sé stesso di uno dei padri della settima arte, Fritz Lang, ormai cinico e disincantato sul futuro del suo film; e anche il gusto già postmoderno con cui si citano Viaggio in Italia e Dante, Qualcuno Verrà e Holderlin. E ancora, significativamente, il personaggio interpretato dalla Bardot porta il vero nome dell’attrice, Camille Javal. In una delle primissime inquadrature sentiamo la voice off del regista che, citando André Bazin, afferma che “il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo”, mentre la macchina da presa lentamente si gira verso lo spettatore: la storia, o la vita stessa, può incominciare.
L’opera omonima - “un volgare e grazioso romanzo da stazione” nelle parole di Godard - di Alberto Moravia, da cui è tratta la pellicola, diventa allora un mero pretesto per intessere una compiuta riflessione sulla realtà e la finzione. E sulla difficoltà relazionale e comunicativa dell’uomo come dell’artista, sottolineata dalla babele linguistica - francese, italiano, tedesco, inglese -  che nell’edizione italiana, sfregiata dai tagli e dal doppiaggio voluti dal produttore Carlo Ponti, si viene però a perdere. D’altronde, il desiderio di Ponti era quello di ottenere un film facilmente vendibile, che potesse essere apprezzato dal grande pubblico, se non altro per le grazie di B.B.; non certo una storia d’amore malinconica e dolorosa che si apre alle più disparate chiavi di lettura, in cui anche l’erotismo è freddamente intinto di tragedia.
Considerato ormai un classico, un testo base dell’arte cinematografica, Le Mépris rimane poderosamente moderno per forma e contenuti veicolati. La scelta per il manifesto della rassegna di Cannes di quest’anno è quindi perfettamente calibrata. L’opera di Godard sembra non limitarsi ad essere un’effigie del passato, ma si rivela capace ancora di mettere in discussione il ruolo che l’uomo attribuisce al cinema e - perché no? - a quell’arte plurimillenaria per cui si deve ringraziare lo stesso Omero: quella di raccontare storie.

Gabriele Franchi    I D ESABAC